I Galli nel pesarese

Le tracce di una presenza romana a Pesaro sono evidenti tutt’oggi, basti pensare ai mosaici, al ponte vecchio, i numerosi ritrovamenti di lastricati stradali e cippi.

Del resto Pesaro e i suoi territori limitrofi hanno sempre ricoperto un ruolo fondamentale nel panorama geopolitico antico, per tante motivazioni tra le quali la vicinanza a rotte di commercio terrestri e marittime, la posizione strategicamente favorevole per il controllo delle stesse vie commerciali e del guado sul fiume Foglia. Ma l’occupazione romana sul territorio pesarese fu semplicemente una tra le tante conquiste che videro il susseguirsi di molte culture e il dominio di queste sul territorio; quella romana fu semplicemente la conquista più incisiva che lasciò più tracce della sua presenza.

Uno degli esempi più evidenti è costituito dalla via flaminia, antica strada consolare che tutt’ora collega Rimini a Roma, il cui utilizzo è attribuibile a tempi ben più antichi della conquista romana ma che fu battezzata dal console Caio Flaminio nel 220 a.C. e tale rimase per tutti i secoli successivi.
Senza andare troppo indietro nel tempo, circa mille anni prima della nascita di Cristo, i territori pesaresi erano abitati da popolazioni indigene che, stando ai ritrovamenti archeologici, possedevano già quelle che sono le caratteristiche proprie di una civiltà, che prese il nome di Picena. In particolare nella località di Novilara, sono state ritrovate numerose sepolture che fanno ipotizzare la presenza di un nucleo abitativo composto da circa 250 persone; molto presenti in tombe maschili sono le armi, tra cui principalmente coltelli, punte di lancia e di giavellotto, che confermano il carattere bellicoso di queste genti delle quali, grazie a diverse fonti (tra cui la famosa stele di Novilara che raffigurerebbe una battaglia navale), si conosce la loro attività di mercenariato. Anche il centro storico di Pesaro è stato interessato da ritrovamenti archeologici relativi a popolazioni picene indigene: nella zona compresa tra via Mazza e via Galligarie, dietro alla scuola “Picciola”, Mario Luni e i suoi collaboratori hanno potuto identificare alcune strutture, riconosciute come abitazioni costituite da una base muraria molto solida (0,85 m di spessore formata da ciottoli fluviali e terra secondo la tecnica costruttiva “a secco”) sulla quale poggiavano le pareti costituite da una intelaiatura in legno con canne intrecciate e rivestite sia internamente che esternamente di argilla, come una sorta di “intonaco”, mentre il tetto era coperto con tegole piatte (tegulae) e coppi semicilindrici (imbrices). Il ritrovamento fortunato di questo intonaco, che ha permesso di capire quale fosse stata la tecnica edilizia utilizzata, è stato probabilmente causato da un evento drammatico, ovvero un incendio, che avrebbe cotto l’argilla facendola conservare fino ai giorni d’oggi e mantenendone la forma originaria, permettendo l’identificazione di una intelaiatura lignea interna e una superficie liscia esterna. Una delle ipotesi formulate da L. Mercando per spiegare la causa dell’incendio che distrusse le abitazioni picene, è la presenza di gruppi di galli che invasero la costa Adriatica a partire dalla fine del V sec. a.C., proseguendo la loro opera di distruzione per tutto il centro delle Marche e, oltrepassando la catena montuosa appenninica, raggiungendo Chiusi e Roma (390 a.C. Circa), pochi anni dopo il presunto incendio alle due abitazioni Pesaresi. La tradizione antica vuole che un ricco mercante di Chiusi chiamato Arunte, per vendicarsi del torto subito da Lucumone che gli aveva sedotto la moglie, e negatosi ogni possibilità di ottenere giustizia dalla sua città, fece un viaggio oltr’Alpe portando con sé olio, fichi e vino, attirando così i Galli in Italia e in particolare su Chiusi (Livio 5, 33; Plutarco Cam, 15; Dioniso 13, 10-11). Sopraggiunti i Galli su Chiusi, i Romani avrebbero mandato un ambasciatore a parlamentare, il quale avrebbe partecipato ad una sortita nei confronti di un guerriero gallico, ucciso poi spogliato; a questa empietà i Galli risposero chiedendo giustizia a Roma, la quale rifiutò causando l’ira gallica che, sotto la guida di Brenno, stravolse l’Urbe. La leggenda quindi vuole che in seguito ad un lauto pagamento il comandante gallico fu convinto a lasciare Roma ripiegando fino a Pesaro, dove venne intercettato dal condottiero Camillo che, alla testa di truppe Romane, affrontò Brenno e la sua armata riconquistando il tesoro appartenente a Roma (aurum gallicum). Questa leggenda ha persino dato origine ad una falsa interpretazione dell’etimologia di Pisaurum, che viene fatto derivare dall’atto di pesare l’oro per verificare di averne recuperato l’intero bottino: “[…] nam Pisaurum dicitur, quod illic aurum pensatum est”, secondo quanto scritto in Servio (Commento all’Eneide, 6, 825).
Questa vicenda avrà delle influenze strane e inquietanti nella storia di Pisaurum, pare infatti che l’oro maledetto con cui fu pagato il riscatto ai Galli abbia contagiato anche il luogo in cui fu pesato. Tre avvenimenti in particolare vengono ricordati dagli autori classici, che evidentemente ne rimasero colpiti a tal punto da scriverne nelle loro opere: nel 163 a.C. “nocte species solis Pisauri adfulsit“, secondo un testimone oculare, un certo Giulio Ossequente, il sole avrebbe illuminato la notte evocando immagini di terrore ben più profonde di quelle generate da una eclissi solare, ovvero quando è il buio a sostituirsi alla luce solare. Testimone ancora Giulio Ossequente: “Pisauri terrae fremitus auditus. Muri pinnae sine terrae notu passim deiectae civiles portendere discordias”, a Pesaro fu udito un grosso boato e si videro precipitare i merli delle mura senza alcun ragionevole motivo; siamo nel 97 a.C. L’ultimo episodio vede come testimone Plutarco e si verifica nel 41 a.C.: improvvisamente una voragine si apre nel terreno e inghiotte parte della città. A tanti avvenimenti infausti, che sembrano gravare sulla Pisaurum repubblicana, vanno aggiunte le testimonianze letterarie che dipingono i suoi abitanti come scellerati e disonesti: a dir di Cicerone, il pesarese Mevulano sarebbe un oscuro congiuratore, mentre Insteio, padrone di bagni in città, secondo alcuni uomo mite e tranquillo, viene dipinto come un ladrone. Un’ultima ma non meno celebre connotazione negativa di Pisaurum viene da Catullo il quale afferma: “[…] iste tuus moribunda ab sede Pisauri”, insomma una maledizione che non colpisce solo il luogo ma anche coloro che vi abitano: la maledizione dell’una accompagna e condanna anche i secondi.
Ma quali sono le vere cause di questa maledizione? Interpretando bene le fonti è possibile comprendere quanto le vicende storiche e il loro coinvolgimento nell’area geografica in cui sorge Pesaro, unite alle ideologie politiche degli autori e alla falsa etimologia del nome, abbiano in un certo qual modo influenzato il pensiero di molti scrittori latini che fecero di Pesaro la loro città prescelta per simbolici luttuosi eventi, nonché per propaganda ideologica e politica.

Tornando alle vicende che riguardano i galli, esauritasi la loro ondata espansionistica, le tribù si ritirarono in quel territorio definito come Ager Gallicus, rimanendo dei vicini scomodi ai Romani per alcuni secoli prima della loro sconfitta nel III sec. a.C.
Non è semplice ricostruire i segni della civiltà gallica nelle Marche a causa della loro attitudine nomade ed incline al saccheggio; talvolta vengono persino definiti “poco colti” e selvaggi, avvezzi all’agricoltura ma soprattutto alla pastorizia. Il loro passaggio dunque non lascia altro che esigue tracce e spesso la sua forma artistica si mescola con usanze e stili locali, adattandosi velocemente alle culture preesistenti nei territori occupati o con le quali vengono in contatto, come Greci ed Etruschi, perdendo talvolta alcune delle caratteristiche che permettono di identificarli; già cinquant’anni dopo il loro arrivo, nelle tombe è possibile osservare produzioni con stili artistici riconducibili alle culture Greche od Etrusche, se non addirittura loro manufatti importati.
Quale fu il rapporto tra la civiltà picena che si vide invasa, e quella gallica che invase? In realtà la civiltà picena stava conoscendo da anni un lento declino, per cui l’avanzata gallica non trovò grande resistenza e presto riuscì a sopraffare le città Picene, che rimasero sul loro territorio sottomesse e controllate dai bellicosi Senoni. Questi ultimi erano organizzati in villaggi pressoché autonomi, ognuno con un proprio “capo tribù” ed una relativa autonomia rispetto alle altre tribù galliche della zona. Il loro dominio trova una forma di “riconoscimento ufficiale” nel 332 a.C. con la sottoscrizione del trattato tra Roma e i Senoni (Polibio, 2, 18, 9) che sancisce di fatto la fine della spinta espansionistica e il passaggio ad uno stato di semi-nomadismo, riconoscendo il territorio marchigiano sotto il dominio gallico tra il 331 e il 299 a.C. Nonostrante il breve lasso di tempo di egemonia nel territorio marchigiano, insufficiente a lasciare fonti archeologiche significative, tracce di questa egemonia perdurano nei dialetti e nei nomi delle località, nonostante siano trascorsi due millenni. È infatti possibile identificare un elemento romagnolo con forme celtiche nel dialetto locale fino a San Leo, Sant’Agata Feltria e Montecerignone presso il fiume Conca, che coinvolge quindi tutta la parte bassa del Montefeltro. Nel frattempo i Romani, messi in allarme dal precedente assalto all’Urbe del 390 a.C., riorganizzano il proprio esercito e riescono a circoscrivere le tribù di Senoni entro zone marginali delle Marche; secondo Livio, nell’anno 299 a.C. i Romani, temendo un ulteriore attacco gallico, stringono un’alleanza con i Piceni i quali gli comunicano anche i progetti bellici Sanniti. Nel 295 a.C. si giunge ad una battaglia presso Sentinum, dove l’alleanza Romani-Piceni infligge una importante sconfitta all’alleanza formata da Senoni, Sanniti, Umbri ed Etruschi; tuttavia sacche di resistenza gallica pemangono sparse sul territorio marchigiano non ancora completamente romanizzato.
La conquista dei territori a questo punto è quasi terminata e nel 284 a.C. viene fondata la colonia romana di Sena Gallica, per assicurare il possesso del centro Adriatico. Secondo Pellegrini, Sena sarebbe un termine gallico che significa “la vecchia”, mentre secondo Peruzzi deriverebbe dal fiume Sena, idronomo indigeno preromano. Nel 283 a.C. i Senoni si scontrano nuovamente con i Romani ad Arretium (Arezzo) infliggendogli una sconfitta e uccidendo il pretore Lucio Cecilio Metello Denter. Il suo sostituto Manio Curio Dentato, invia dei messaggeri ai Galli per trattare la liberazione dei prigionieri ma come risposta ottiene la trucidazione dei messaggeri stessi; ad un simile gesto i Romani, guidati dal console Publio Cornelio Dolabella, scatenano un’offensiva che penetra profondamente nel territorio gallico infliggendo pesanti sconfitte agli eserciti di Galli guidati da Britomaris, incendiando villaggi, uccidendo gli uomini, facendo prigionieri donne, bambini e lo stesso Britomaris, che fu giustiziato in onore del trionfo del console Dolabella secondo la consuetudine Romana.

Nel 290 a.C. i Galli Senoni possono essere considerati quasi del tutto sconfitti e costretti a migrare in territori limitrofi, soprattutto in collina e alta montagna (monte Catria, ad esempio) dove abbandonano definivamente le abitudini nomadi e si stanziano mescolandosi alle popolazioni indigene. I Romani non furono misericordiosi con gli sconfitti, nemmeno con i vecchi alleati Piceni: le fonti descrivono stragi da pulizia etnica nei confronti dei Senoni, gruppi di Piceni furono letteralmente deportati nell’entroterra salernitano e per coloro a cui fu concesso di rimanere pare sia stata conferita la civitas sine suffragio (cittadinanza senza diritto di voto); i Piceni cercarono inutilmente di opporsi all’avanzata Romana senza risultato, probabilmente dopo aver compreso di essere passati dalla sottomissione Senona a quella Romana, molto più opprimente. Nel 184 a.C. fu fondata Pisaurum, città romana così chiamata dall’idronimo Pisaurus (attuale fiume Foglia).

Ad oggi le tracce del passaggio di galli Senoni nel Pesarese sono molto scarse e talvolta di difficile identificazione: nell’entroterra sono stati fatti ritrovamenti di quattro tombe galliche di guerrieri senza elmo nei pressi di Piobbico, recentemente datate fine IV inizi III sec. a.C.: corredi poco ricchi perché privi di elmi e di altri elementi quali strigili e gioielli che caratterizzano le tombe di Santa Paolina di Filottrano o Montefortino d’Arcevia. A queste si aggiungono le tombe ritrovate presso San Vitale e Cagli.
Se si considerano i toponimi di possibile ascendenza celtica (che terminano per -ico e -aco) nel territorio Pesarese, si nota una generale carenza nei territori vicino alla costa e una maggiore diffusione nelle zone montuose della provincia, forse a testimoniare la diffusione di piccole comunità nell’entroterra che sopravvissero al genocidio attuato dai romani nei territori maggiormente popolati lungo la costa.

Bibliografia

– Fonti letterarie ed epigrafiche per la storia romana della provincia di Pesaro e Urbino; Antonella Trevisiol; L’Erma di Bretschneider; 1999
– Per la storia romana della provincia di Pesaro e Urbino; Ulrico Agnati; L’Erma di Bretschneider; 1999
– Storia e archeologia di Pitinum Pisaurense; Walter Monacchi; Societa di studi storici per il Montefeltro; 1999
– Pesaro nell’antichita: storia e monumenti; Marsilio; 1984
– Le necropoli di Piobbico; Vitali; in Celti ed etruschi nell’Italia centro-settentrionale dal V secolo a.C. alla romanizzazione: atti del colloquio internazionale, Bologna, 12-14 aprile 1985

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